COVID e Locazioni
Il contratto di locazione e l’emergenza epidemiologica
Nel contratto di locazione, grava sul proprietario l’obbligo di garantire il godimento del bene e sull’inquilino quello di eseguire la controprestazione economica. Nell’ambito commerciale, la chiusura totale (lockdown) e le misure di restrizione impediscono al conduttore di esercitare l’attività per la quale il bene immobile è stato locato (si pensi a bar e ristoranti). Si viene così a creare uno squilibrio contrattuale: l’inquilino è costretto a versare il corrispettivo senza godere del locale. Nondimeno, neppure il proprietario può sfruttare l’immobile, atteso che è occupato dai beni del conduttore (ad esempio, le merci, nel caso del negozio al dettaglio). Come risolvere la situazione?
Accordo con il locatore e diminuzione del canone
La soluzione più agevole è quella concordata, ossia il locatore e il conduttore possono decidere, di comune accordo, di rinegoziare il contratto e di rimodulare, al ribasso, l’importo del canone per tutta la durata dell’emergenza Covid-19. Si tratta di una modifica che non è onerosa per i contraenti, infatti, l’accordo con il quale si riduce l’affitto, sebbene registrato all’Agenzia delle Entrate, non comporta la corresponsione dell’imposta di registro. Tuttavia, non sempre i proprietari si dimostrano disponibili ad accogliere le istanze degli inquilini. In tal caso, come bisogna comportarsi?
L’inquilino non può ridurre il canone in modo arbitrario
La regola generale prevede che il conduttore non possa astenersi dalla corresponsione del canone o ridurlo unilateralmente; infatti, tra le obbligazioni gravanti sull’inquilino, v’è quella di versare il corrispettivo (art. 1587 n. 2 c.c.). La giurisprudenza ammette la facoltà di astensione dal pagamento solo nell’ipotesi in cui la controprestazione del locatore venga completamente a mancare. Tuttavia, nel caso dell’emergenza epidemiologica, l’inquilino ha la disponibilità materiale del bene, ma non può giovarsene per previsione normativa, non già per colpa del locatore. Per tale ragione, non può arbitrariamente decidere di non eseguire la propria prestazione economica.
Le difficoltà economiche non giustificano l’inadempimento
Un principio generale del diritto è che il denaro non “perisce” mai, ossia il denaro è sempre in circolazione, pertanto, nelle obbligazioni pecuniarie (come il pagamento dell’affitto), il debitore resta obbligato verso il creditore. Infatti, l’”impotenza finanziaria” dell’inquilino, sebbene derivante dall’emergenza sanitaria, non rientra nell’impossibilità sopravvenuta, sia essa assoluta o parziale.
L’eccessiva onerosità sopravvenuta: la risoluzione del contratto
Un’altra regola prevede che, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa, per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, si possa domandare la risoluzione del contratto (art. 1467 c.c.). La pandemia si può annoverare tra le ragioni di forza maggiore richieste dalla legge, pertanto, nel caso in cui il conduttore, a causa della chiusura forzata dell’esercizio commerciale, si trovi a non riuscire a corrispondere il canone, ha titolo per chiedere la risoluzione del contratto. Tale disposizione, però, non viene incontro alle esigenze concrete dell’inquilino, il quale mira ad ottenere una diminuzione del canone e non a risolvere il contratto. Inoltre, con la risoluzione, il conduttore perde l’indennità di avviamento.
Il dovere di correttezza e solidarietà: obbligo di rinegoziazione del contratto
Da quanto sin qui esposto emerge come, nell’attuale panorama giuridico, non esista una disciplina specifica da adottare nel caso di un’epidemia globale come quella in corso. Le pronunce più recenti in materia locatizia hanno fatto riferimento all’obbligo di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.). Recentemente, il Tribunale di Roma (ordinanza 29683/2020), appellandosi a tali principi, ha affermato che sussiste, “un obbligo delle parti di contrattare al fine di addivenire ad un nuovo accordo volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell’alea normale del contratto”.
Oltre a ciò, occorre sempre ricordare il dovere di solidarietà stabilito dalla Carta Costituzionale (art. 2 Cost.). Pertanto, alla luce di tali principi, è imperativo che le parti rendano equo un contratto altrimenti squilibrato, procedendo alla sua rinegoziazione.
Obbligo di quarantena alla fine della locazione: risarcimento al locatore?
Nel caso in cui il contratto di locazione ad uso abitativo sia giunto alla sua naturale scadenza e l’inquilino non rilasci l’immobile, cosa accade? La regola generale prevede che, se il conduttore ritarda a restituire il bene, è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno (art. 1591 c.c.). Pertanto, al fine di evitare la pretesa risarcitoria del proprietario, l’inquilino deve dimostrare che il ritardo nella restituzione è dipeso da causa a lui imputabile, come l’obbligo di isolamento domiciliare a causa del contagio da Covid-19.
Mancato versamento del canone: cosa può fare il locatore?
Naturalmente, nell’ipotesi in cui il conduttore cessi di versare il canone locatizio, il locatore ha diritto di agire con lo sfratto per morosità. Tuttavia, si segnala che, attualmente, l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso abitativo, è sospesa dal 18 marzo 2020 al 31 dicembre 2020. Infatti, il cosiddetto “Decreto rilancio” ha prorogato al 31 dicembre la sospensione originariamente prevista sino al 1° settembre dal decreto “Cura Italia”. Il locatore può incardinare un procedimento di sfratto verso il conduttore può ottenere l’ordinanza di convalida di sfratto, tuttavia, i suddetti provvedimenti saranno eseguiti solo a partire dal gennaio 2021.
Separazioni e Divorzi
Criterio del tenore di vita escluso anche nell’assegno di separazione
Come nel divorzio, l’assegno assolve a una funzione assistenziale e compensativa (Cassazione, ordinanza n. 26084/2019).
Ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento nella separazione, è priva di rilevanza la richiesta di provare l’alto tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la rilevante consistenza del patrimonio di uno dei coniugi. I criteri utilizzabili sono quello assistenziale e quello compensativo.
La Corte di Cassazione (sez. VI-1) con l’ordinanza del 15 ottobre 2019, n. 26084 (testo in calce) – ha chiarito il concetto di irreversibilità della crisi coniugale ai fini della separazione personale dei coniugi. Con riguardo alla quantificazione del mantenimento, la Corte ha escluso l’utilizzo del criterio del tenore di vita in analogia con l’assegno divorzile.
Nel giudizio separativo, il marito convenuto non si costituisce in giudizio e il Tribunale accoglie la domanda della moglie senza imporre alcun assegno di mantenimento stante la condizione di autosufficienza economica di entrambe le parti.
La sentenza è impugnata dall’uomo il quale chiede che il giudizio sia dichiarato nullo per non essere stato convocato a presenziare all’udienza presidenziale e per non avere ricevuto la notifica dell’ordinanza di fissazione dell’udienza davanti al giudice istruttore.
Il Tribunale ha inoltre errato nell’omettere l’accertamento sull’irreversibilità della crisi coniugale.
La Corte d’Appello territoriale dichiara nullo il procedimento stante la mancata comparizione del marito all’udienza presidenziale senza rimettere la causa al tribunale. Nel merito, ritiene infondata la richiesta di accertamento sull’intollerabilità della convivenza, presupposto richiesto dall’art. 151 c.c., e dispone che la moglie versi al marito un assegno di mantenimento di 1.500 euro. Anche contro questo provvedimento, l’uomo ricorre in Cassazione.
La soluzione interpretativa della Cassazione è rilevante quanto a due particolari questioni. La Corte chiarisce che l’intollerabilità della convivenza deve essere intesa come fatto psicologico squisitamente individuale: non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza. Ovviamente, tale fatto, deve essere verificabile in base a fatti oggettivi e a tal fine rileva, sia la presentazione stessa del ricorso separativo, sia il risultato del tentativo di conciliazione da esperire in sede di comparizione all’udienza presidenziale.
Nella coppia era risultato un rilevante squilibrio economico in favore della moglie, e, infatti, il marito aveva chiesto che l’assegno fosse rideterminato in 6.000 euro mensili anziché 1.500.
La Cassazione, ai fini della determinazione della misura dell’assegno, richiama però l’orientamento di legittimità applicabile all’assegno divorzile.
In forza dell’orientamento delle sezioni unite, è irrilevante la richiesta di provare l’alto tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la notevole consistenza del patrimonio della moglie, dovendosi attribuire all’assegno, una funzione assistenziale – ampiamente soddisfatta dalla misura dell’assegno riconosciuto al ricorrente – e una funzione compensativa, i cui presupposti non sono stati provati.
La Corte pertanto ha respinto il ricorso ritenendo che la mancata rimessione al giudice di primo grado dopo la declaratoria di nullità del procedimento, non rientra nelle previsioni di cui all’art. 353 e ss c.p.c., e, in tal caso, il giudice di appello deve decidere la causa nel merito, dopo aver dichiarato la nullità e autorizzare tutte le attività che dovevano essere esperite (conformi Cass. Civ. n. 26361/2011 e Cass. Civ. 8713/2015).